Raccolta di Undici Racconti dal titolo COSE DI DONNE Edizioni Nuovi Poeti di Vaprio D’Adda novembre 2010
Pubblicata come Premio Editoriale al Primo Classificato al Concorso Nazionale SPAZIO AUTORI 2008
Dalla Raccolta COSE DI DONNE il Racconto:
CAMPAICIA
Distesa sul lettino della camera mortuaria, era ancora più bella.
La breve permanenza nell’acqua non aveva scomposto i suoi lineamenti delicati. La grata di ferro che proteggeva la ruota del mulino, appena prima del breve salto, aveva trattenuto il suo corpo. I lunghi capelli castani raccolti in due trecce erano stati pettinati e divisi sulla fronte alta e luminosa. Lunghe ciglia scure nascondevano gli occhi bruni che la rara gioia sapeva accendere d’improvviso. Il viso perfetto era disteso quasi in un sorriso. La stretta veste a fiori aveva sostituito l’altra uguale, macerata dal canale.
Si era buttata nella fredda acqua del Brembiolo, proprio in paese, nello spiazzo davanti alla chiesa di San Bernardino. Era quello il luogo, affacciato sul fiume , dove i bambini pescavano alborelle e dove si veniva con la borsa della spesa piena di gattini appena nati.
Anche Gabriella aveva partecipato alla festosa e crudele ceri-monia di morte. I bambini gettavano nell’acqua un gattino alla volta e con grida incoscienti assistevano all’angoscioso an-naspare nella corrente, prima che la rada griglia inghiottisse ciascuno giù nel salto.
Aveva visto come in fondo fosse facile morire affogati e senza un grido, apparentemente senza dolore.
Non aveva potuto immaginare come il suo corpo sarebbe ri-masto bloccato dalla griglia di metallo, come il suo ultimo gri-do sarebbe rimasto inudito, come la sua veste a fiori avrebbe galleggiato a lungo, prima di infradiciarsi nei gorghi.
Un paese della bassa lodigiana, per metà dell’anno sepolto nella nebbia delle risaie e per l’altra metà nell’afa che sembra nutrire le zanzare e le rane dei fossi.
Esistono luoghi che sembrano perfetti per vivere e altri che quasi si addicono al morire. Il villaggio di Gabriella, ai piedi delle Dolomiti Bellunesi, montagne squillanti che si riflettono a tratti nell’acqua verdazzurra del Piave sembrava il luogo della felicità. Il paese della bassa faceva pensare a una condanna. La fame però non lascia scegliere il luogo dove vivere o morire. E poi, morire di nostalgia o morire di fame, si tratta pur sempre della stessa sorte.
Il villaggio di Gabriella erano I Salet, un agglomerato di poche case sulla riva del Piave. Una terra poverissima che poteva dare solo patate e polenta. La miseria più assoluta mandava gli uomini nelle miniere del Belgio a morire di silicosi e le donne a zappare tra i sassi e a crepare di fatica.
A molte famiglie bastava trovare per i bambini e i ragazzi, un’occupazione qualsiasi in cambio del solo vitto. "Per le spese", si diceva. Spese da poco perché i bambini venivano nutriti a polenta e fagioli e poco altro. Le scarpe non servivano durante l’estate perché tutti sapevano camminare a piedi nudi.
Qualche bambino che ancora bagnava il letto, la notte, doveva partire con il "pissot", una specie di cuscino riempito di "foiola", le foglie di pannocchia, per rimediare la notte.
Da esporre al sole, il giorno dopo.
Alla fine delle scuole cominciava l’esodo. Per i maschi verso il Trentino o l’Alpago per la raccolta del fieno. Per le femmine, verso le città vicine come Feltre e Belluno o anche Padova e Milano, per i servizi di casa.
Anche Gabriella era una bocca di troppo, impossibile da sfamare, per la sua famiglia.
Tredici anni, pochi per una ragazzina alta e snella, dalla figuretta agile e flessuosa. Una grazia innata e una fame proporzionata alle promesse di una crescita che si poteva immaginare splendida e radiosa.
La mamma tremava per lei, nel vederla così bella e fragile.
Laura però era del paese e aveva una bella famiglia con due ragazzine come Gabriella e un ragazzo appena più grande. Una
bella famiglia normale con una casa normale, un lavoro normale in un paese che veniva descritto a due passi da Milano.
Gabriella sarebbe stata in famiglia, avrebbe finalmente man-giato in cambio di qualche lavoretto di casa. Avrebbe studiato anche un poco sui vecchi libri di scuola, avrebbe scritto qual-che volta, si sarebbe lavata e pettinata per rispetto a chi l’ac-coglieva come una figlia. Non avrebbe avuto una camera sua ma dormito con le altre bambine, avrebbe forse anche giocato con loro. E poi avrebbe visto altri luoghi, conosciuto altra gente, imparato un nuovo dialetto e a vincere la nostalgia di casa, a cavarsela da sola, a parlare correttamente l’italiano. Tante cose tutte belle per una creatura di tredici anni.
Sul finire dell’estate quando Laura e i suoi figli lasciarono il paese dei nonni, in Val Belluna, anche Gabriella aveva pre-parato le sue poche cose. Una sacca fatta con la federa di un vecchio cuscino. Due vestitini e un paio di scarpe, un cappottino troppo stretto, voltato e rivoltato ripetutamente, ma l’inverno non era lontano e bisognava pensarci.
Il primo viaggio in treno della sua vita. Un’avventura da la-sciare ad ogni istante a bocca aperta. Anche la casetta dove si era arrivati le parve una reggia. Non aveva una camera tutta per sé ma era abituata a dormire in un grande letto con tanti fratelli.
Gli occhi di Gabriella si spalancavano ogni giorno di più da-vanti alle meraviglie che incontrava. L’acqua che lei era abi-tuata ad attingere al fiume qui era alla porta di casa, giù nel cortile. Bastava spingere con forza sul braccio di una pompa e l’acqua sgorgava da un invisibile pozzo. E si poteva lavarsi nel sottoscala dove, su un trespolo, troneggiava un bacile.
Il cesso sul balcone del primo piano, un buco nel pavimento, le parve un miracolo rispetto al letamaio appena dietro la sua casa. La cucina con la stufa economica e con la vasca dell’acqua calda sempre pronta per lavare i piatti e la bian-cheria e l’orticello in un angolo del cortile e le sue erbe aro-matiche e l’albero di pesco.
La casa era al fondo di un vicolo stretto dove si aprivano tante diverse corti dove bambini sciamavano ad ogni ora.
Nel pomeriggio, dopo la scuola, soltanto Angelo, un bambino malato restava dietro i vetri della sua stanza. Tutti gli altri in-ventavano giochi per stare insieme, con la merenda in mano, fino al primo buio.
Non conosceva molti giochi Gabriella perché i fratelli più piccoli e il lavori dei campi avevano impegnato tutto il suo tempo. Poteva osservare le bambine che saltavano la corda o che giocavano al Mondo, su un piede solo dentro un reticolo di-segnato per terra. Poteva solo osservare,correndo al negozio di Carla per comprare il pane.
Il mattino era la prima ad alzarsi per portare il latte ai bambini che sarebbero andati a scuola. Il negozio era nella strada accanto, solo duecento metri, ma bisognava correre un poco perché il latte doveva essere caldo nella tazza, per tempo.
Lo sbigottimento di un viaggio dentro una realtà sconosciuta. L’abbandono all’interno di una famiglia che le pareva irreale. La malinconia e la nostalgia appena affioranti a tratti, specie la sera.
Poi piano piano qualche piccola delusione, come quella di non avere il tempo per giocare.
Poi ancora la percezione sottile della dipendenza. Una percezione appena coperta da una illusione di appartenenza alla nuova famiglia.
Poi la prima vera delusione.
"La serva".
Quel giorno i ragazzi del vicolo, mentre la vedevano passare quasi correndo sulle sue gambette sottili, parlando tra loro l’avevano chiamata così.
Quando la nostalgia di casa si fece avanti bisognò tener fede alla promessa fatta alla mamma e scrivere. E’ difficile quando l’emozione è vera riuscire a mantenere asciutta una pagina. E poi è difficile ancora scrivere quando si hanno intorno bambini che si prendono gioco delle tue lacrime e del tuo modo di asciugarle bagnandoti fino ai gomiti.
E poi Laura vuole aiutarti e ti detta cose da dire.
Alla fine poi la tua lettera resta nelle mani di Laura che vuole aggiungere di suo pugno cose per tranquillizzare la mamma. Dire che stai bene, che mangi abbondantemente, che giochi, che aiuti, che parli bene l’italiano che ogni tanto vai in chiesa, che non soffri di nostalgia. Sarà ancora Laura ad affrancare e spedire la tua lettera.
A spedirla, forse.
Si, perché quando la nostalgia è più cocente e cominci a scrivere troppo spesso a casa e aspetti ogni giorno la risposta della mamma, la risposta non viene.
E quel giorno disperato in cui avresti voluto raccontare tutta la tua solitudine e il tuo bisogno di mamma,
Laura non avrebbe gradito, non avrebbe potuto scrivere nella tua pagina: tutto bene.
Avresti avuto bisogno delle poche monete che non avevi, per un francobollo e allora la tua lettera appena iniziata è rimasta nascosta dentro la federa del tuo cuscino.
"Ladra".
La seconda delusione vera della tua vita. Questa l’accusa per aver forse sottratto i soldi per un francobollo per spedire la lettera che avevi pensato e nascosto.
La mamma lontana non risponde alle lettere o forse qualcuno le sottrae e le elimina.
Quando il cuore cede, altre cose possono succedere come quella di bagnare il letto per il tormento. Può accadere anche a una bimba di tredici anni che è già una donna e poi é bella e carica di promesse.
Quando non si può nascondere questa debolezza si diventa nel giro di un giorno lo zimbello di tutti i ragazzini del vicinato.
La famiglia di Gabriella era nota nei suoi dintorni per ospitare un vecchio zio probabilmente demente o comunque incapace. Aveva vissuto da sempre con una magra pensione di invalidità e per questo era considerato un prezioso aiuto per chi lo ospitava. Soffriva di incontinenza per cui girava con i pantaloni maleodoranti e costantemente bagnati sul davanti.
Dalla più tenera età si portava appresso un soprannome che alludeva al suo problema. Veniva chiamato "Campaicio". Un modo di ridire, tra l’infantile e il dialettale, la frase che doveva forse aver detto un tempo, " mi scappa il piscio". Per assonanza "Campaicio" era diventato il modo di chiamare nel luogo ogni bambino piscione.
Gabriella dopo la sua notte bagnata fu insignita da Laura del soprannome di Campaicia.
La cosa fu così insopportabile e umiliante che finì con l’uccidere in Gabriella ogni capacità di perdonare le piccole umiliazioni di ogni giorno. La derisione di tutti i ragazzi anche di quelli che in qualche modo avevano cominciato ad accorgersi della sua grazia innata e della sua bellezza in boccio.
Insopportabile come è insopportabile un dolore troppo grande, ma poi vivendo ci si accorge che giorno dopo giorno si può continuare a vivere. Si può sprofondare nell’umiliazione ma si può esistere ugualmente anche tra la derisione e lo scherno.
Si può sopportare quasi tutto vivendo, quasi tutto, ma non tutto.
"Puttana".
Questo non si può sopportare. Non si può respingere con le forze di una bambina un’accusa tanto violenta e ingiusta. Non è sopportabile il dolore di non sapersi difendere.
La parola che Laura le aveva indirizzato con la massima ferocia, non ammetteva repliche. Come poteva lei, così piccola, allontanare da sé l’accusa di un’intesa con l’uomo di casa. A chi avrebbero creduto sua madre e suo padre?
Gli schiavi non hanno diritti, non hanno difese, non hanno spazio per vivere.
Morire in fondo è così facile, basta abbandonarsi come un gattino all’acqua del fiume.
Pubblicata come Premio Editoriale al Primo Classificato al Concorso Nazionale SPAZIO AUTORI 2008
Dalla Raccolta COSE DI DONNE il Racconto:
CAMPAICIA
Distesa sul lettino della camera mortuaria, era ancora più bella.
La breve permanenza nell’acqua non aveva scomposto i suoi lineamenti delicati. La grata di ferro che proteggeva la ruota del mulino, appena prima del breve salto, aveva trattenuto il suo corpo. I lunghi capelli castani raccolti in due trecce erano stati pettinati e divisi sulla fronte alta e luminosa. Lunghe ciglia scure nascondevano gli occhi bruni che la rara gioia sapeva accendere d’improvviso. Il viso perfetto era disteso quasi in un sorriso. La stretta veste a fiori aveva sostituito l’altra uguale, macerata dal canale.
Si era buttata nella fredda acqua del Brembiolo, proprio in paese, nello spiazzo davanti alla chiesa di San Bernardino. Era quello il luogo, affacciato sul fiume , dove i bambini pescavano alborelle e dove si veniva con la borsa della spesa piena di gattini appena nati.
Anche Gabriella aveva partecipato alla festosa e crudele ceri-monia di morte. I bambini gettavano nell’acqua un gattino alla volta e con grida incoscienti assistevano all’angoscioso an-naspare nella corrente, prima che la rada griglia inghiottisse ciascuno giù nel salto.
Aveva visto come in fondo fosse facile morire affogati e senza un grido, apparentemente senza dolore.
Non aveva potuto immaginare come il suo corpo sarebbe ri-masto bloccato dalla griglia di metallo, come il suo ultimo gri-do sarebbe rimasto inudito, come la sua veste a fiori avrebbe galleggiato a lungo, prima di infradiciarsi nei gorghi.
Un paese della bassa lodigiana, per metà dell’anno sepolto nella nebbia delle risaie e per l’altra metà nell’afa che sembra nutrire le zanzare e le rane dei fossi.
Esistono luoghi che sembrano perfetti per vivere e altri che quasi si addicono al morire. Il villaggio di Gabriella, ai piedi delle Dolomiti Bellunesi, montagne squillanti che si riflettono a tratti nell’acqua verdazzurra del Piave sembrava il luogo della felicità. Il paese della bassa faceva pensare a una condanna. La fame però non lascia scegliere il luogo dove vivere o morire. E poi, morire di nostalgia o morire di fame, si tratta pur sempre della stessa sorte.
Il villaggio di Gabriella erano I Salet, un agglomerato di poche case sulla riva del Piave. Una terra poverissima che poteva dare solo patate e polenta. La miseria più assoluta mandava gli uomini nelle miniere del Belgio a morire di silicosi e le donne a zappare tra i sassi e a crepare di fatica.
A molte famiglie bastava trovare per i bambini e i ragazzi, un’occupazione qualsiasi in cambio del solo vitto. "Per le spese", si diceva. Spese da poco perché i bambini venivano nutriti a polenta e fagioli e poco altro. Le scarpe non servivano durante l’estate perché tutti sapevano camminare a piedi nudi.
Qualche bambino che ancora bagnava il letto, la notte, doveva partire con il "pissot", una specie di cuscino riempito di "foiola", le foglie di pannocchia, per rimediare la notte.
Da esporre al sole, il giorno dopo.
Alla fine delle scuole cominciava l’esodo. Per i maschi verso il Trentino o l’Alpago per la raccolta del fieno. Per le femmine, verso le città vicine come Feltre e Belluno o anche Padova e Milano, per i servizi di casa.
Anche Gabriella era una bocca di troppo, impossibile da sfamare, per la sua famiglia.
Tredici anni, pochi per una ragazzina alta e snella, dalla figuretta agile e flessuosa. Una grazia innata e una fame proporzionata alle promesse di una crescita che si poteva immaginare splendida e radiosa.
La mamma tremava per lei, nel vederla così bella e fragile.
Laura però era del paese e aveva una bella famiglia con due ragazzine come Gabriella e un ragazzo appena più grande. Una
bella famiglia normale con una casa normale, un lavoro normale in un paese che veniva descritto a due passi da Milano.
Gabriella sarebbe stata in famiglia, avrebbe finalmente man-giato in cambio di qualche lavoretto di casa. Avrebbe studiato anche un poco sui vecchi libri di scuola, avrebbe scritto qual-che volta, si sarebbe lavata e pettinata per rispetto a chi l’ac-coglieva come una figlia. Non avrebbe avuto una camera sua ma dormito con le altre bambine, avrebbe forse anche giocato con loro. E poi avrebbe visto altri luoghi, conosciuto altra gente, imparato un nuovo dialetto e a vincere la nostalgia di casa, a cavarsela da sola, a parlare correttamente l’italiano. Tante cose tutte belle per una creatura di tredici anni.
Sul finire dell’estate quando Laura e i suoi figli lasciarono il paese dei nonni, in Val Belluna, anche Gabriella aveva pre-parato le sue poche cose. Una sacca fatta con la federa di un vecchio cuscino. Due vestitini e un paio di scarpe, un cappottino troppo stretto, voltato e rivoltato ripetutamente, ma l’inverno non era lontano e bisognava pensarci.
Il primo viaggio in treno della sua vita. Un’avventura da la-sciare ad ogni istante a bocca aperta. Anche la casetta dove si era arrivati le parve una reggia. Non aveva una camera tutta per sé ma era abituata a dormire in un grande letto con tanti fratelli.
Gli occhi di Gabriella si spalancavano ogni giorno di più da-vanti alle meraviglie che incontrava. L’acqua che lei era abi-tuata ad attingere al fiume qui era alla porta di casa, giù nel cortile. Bastava spingere con forza sul braccio di una pompa e l’acqua sgorgava da un invisibile pozzo. E si poteva lavarsi nel sottoscala dove, su un trespolo, troneggiava un bacile.
Il cesso sul balcone del primo piano, un buco nel pavimento, le parve un miracolo rispetto al letamaio appena dietro la sua casa. La cucina con la stufa economica e con la vasca dell’acqua calda sempre pronta per lavare i piatti e la bian-cheria e l’orticello in un angolo del cortile e le sue erbe aro-matiche e l’albero di pesco.
La casa era al fondo di un vicolo stretto dove si aprivano tante diverse corti dove bambini sciamavano ad ogni ora.
Nel pomeriggio, dopo la scuola, soltanto Angelo, un bambino malato restava dietro i vetri della sua stanza. Tutti gli altri in-ventavano giochi per stare insieme, con la merenda in mano, fino al primo buio.
Non conosceva molti giochi Gabriella perché i fratelli più piccoli e il lavori dei campi avevano impegnato tutto il suo tempo. Poteva osservare le bambine che saltavano la corda o che giocavano al Mondo, su un piede solo dentro un reticolo di-segnato per terra. Poteva solo osservare,correndo al negozio di Carla per comprare il pane.
Il mattino era la prima ad alzarsi per portare il latte ai bambini che sarebbero andati a scuola. Il negozio era nella strada accanto, solo duecento metri, ma bisognava correre un poco perché il latte doveva essere caldo nella tazza, per tempo.
Lo sbigottimento di un viaggio dentro una realtà sconosciuta. L’abbandono all’interno di una famiglia che le pareva irreale. La malinconia e la nostalgia appena affioranti a tratti, specie la sera.
Poi piano piano qualche piccola delusione, come quella di non avere il tempo per giocare.
Poi ancora la percezione sottile della dipendenza. Una percezione appena coperta da una illusione di appartenenza alla nuova famiglia.
Poi la prima vera delusione.
"La serva".
Quel giorno i ragazzi del vicolo, mentre la vedevano passare quasi correndo sulle sue gambette sottili, parlando tra loro l’avevano chiamata così.
Quando la nostalgia di casa si fece avanti bisognò tener fede alla promessa fatta alla mamma e scrivere. E’ difficile quando l’emozione è vera riuscire a mantenere asciutta una pagina. E poi è difficile ancora scrivere quando si hanno intorno bambini che si prendono gioco delle tue lacrime e del tuo modo di asciugarle bagnandoti fino ai gomiti.
E poi Laura vuole aiutarti e ti detta cose da dire.
Alla fine poi la tua lettera resta nelle mani di Laura che vuole aggiungere di suo pugno cose per tranquillizzare la mamma. Dire che stai bene, che mangi abbondantemente, che giochi, che aiuti, che parli bene l’italiano che ogni tanto vai in chiesa, che non soffri di nostalgia. Sarà ancora Laura ad affrancare e spedire la tua lettera.
A spedirla, forse.
Si, perché quando la nostalgia è più cocente e cominci a scrivere troppo spesso a casa e aspetti ogni giorno la risposta della mamma, la risposta non viene.
E quel giorno disperato in cui avresti voluto raccontare tutta la tua solitudine e il tuo bisogno di mamma,
Laura non avrebbe gradito, non avrebbe potuto scrivere nella tua pagina: tutto bene.
Avresti avuto bisogno delle poche monete che non avevi, per un francobollo e allora la tua lettera appena iniziata è rimasta nascosta dentro la federa del tuo cuscino.
"Ladra".
La seconda delusione vera della tua vita. Questa l’accusa per aver forse sottratto i soldi per un francobollo per spedire la lettera che avevi pensato e nascosto.
La mamma lontana non risponde alle lettere o forse qualcuno le sottrae e le elimina.
Quando il cuore cede, altre cose possono succedere come quella di bagnare il letto per il tormento. Può accadere anche a una bimba di tredici anni che è già una donna e poi é bella e carica di promesse.
Quando non si può nascondere questa debolezza si diventa nel giro di un giorno lo zimbello di tutti i ragazzini del vicinato.
La famiglia di Gabriella era nota nei suoi dintorni per ospitare un vecchio zio probabilmente demente o comunque incapace. Aveva vissuto da sempre con una magra pensione di invalidità e per questo era considerato un prezioso aiuto per chi lo ospitava. Soffriva di incontinenza per cui girava con i pantaloni maleodoranti e costantemente bagnati sul davanti.
Dalla più tenera età si portava appresso un soprannome che alludeva al suo problema. Veniva chiamato "Campaicio". Un modo di ridire, tra l’infantile e il dialettale, la frase che doveva forse aver detto un tempo, " mi scappa il piscio". Per assonanza "Campaicio" era diventato il modo di chiamare nel luogo ogni bambino piscione.
Gabriella dopo la sua notte bagnata fu insignita da Laura del soprannome di Campaicia.
La cosa fu così insopportabile e umiliante che finì con l’uccidere in Gabriella ogni capacità di perdonare le piccole umiliazioni di ogni giorno. La derisione di tutti i ragazzi anche di quelli che in qualche modo avevano cominciato ad accorgersi della sua grazia innata e della sua bellezza in boccio.
Insopportabile come è insopportabile un dolore troppo grande, ma poi vivendo ci si accorge che giorno dopo giorno si può continuare a vivere. Si può sprofondare nell’umiliazione ma si può esistere ugualmente anche tra la derisione e lo scherno.
Si può sopportare quasi tutto vivendo, quasi tutto, ma non tutto.
"Puttana".
Questo non si può sopportare. Non si può respingere con le forze di una bambina un’accusa tanto violenta e ingiusta. Non è sopportabile il dolore di non sapersi difendere.
La parola che Laura le aveva indirizzato con la massima ferocia, non ammetteva repliche. Come poteva lei, così piccola, allontanare da sé l’accusa di un’intesa con l’uomo di casa. A chi avrebbero creduto sua madre e suo padre?
Gli schiavi non hanno diritti, non hanno difese, non hanno spazio per vivere.
Morire in fondo è così facile, basta abbandonarsi come un gattino all’acqua del fiume.