PREFAZIONE alla Raccolta IO SO VOLARE a cura di Fabio Maria SERPILLI
La Memoria Dolce - note di lettura Mi pongo in lettura libera di questa raccolta poetica di Rodolfo Vettorello, seguendo l’ordine dei testi e fermandomi, quando cuore e mente sono colpiti in maniera decisiva, su nuclei poetici e tematici di sicura rilevanza artistica. Testo dopo testo mi pongo sul sentiero tracciato dal poeta, che in realtà ci fa una narrazione speciale della vita, con tanto di trama che lega ogni composizione in un contesto esistenziale unitario. - In La conchiglia si trova quasi un testamento in epigrafe di una «vita trascorsa… tra l’acqua e l’aria», che prevalentemente esprime una condizione spirituale, se il cosiddetto ‘spirito’ ha ancora diritto di cittadinanza nella cultura di oggi. - L’orario con cifra ‘zero’, il tempo scaduto avviano le prime parole chiave, tra tutte il ‘segno’, ricorrente anche in La conchiglia. Le poche parole ‘propinque’ al silenzio creano l’abitudine all’attesa, altra parola chiave di grande pregnanza semantica. Il tempo di cui parla Vettorello è un a-cronos, è il tempo interiore, metafisico. - La particolare scansione a-cronometrica prosegue in Neda che, «vestita di nulla», «non conta… né il mese, né l’ora, né il luogo…» - Lo sguardo del poeta si rivolge a sé, alla storia personale, ma spesso Vettorello apre finestre sul mondo, come in Tienammen per sottolineare l’universalità del dolore (tema caro a Saba), la planisfericità del soffrire, a causa dell’ingiustizia e della voracità del potere. - E poi il ritorno al microcosmo domestico, familiare, cittadino. Il testo Mio figlio è un professore esprime il distacco, la precarietà degli affetti. La solitudine è una delle condizioni più frequenti nella società di oggi, quasi una condanna. - Ultrasuono è frammento lirico di grande intensità e colmo di contenuti veicolati da metafore di volo-suono percezione ed emotività. Quasi una visione sinestetica di vita e scrittura. Come dire che tutto è ‘segno’, ogni frammento rimanda a un disegno in filigrana. - Ancora tutto è ‘segno’ in Bianco di neve per sé e per l’altro, nell’hic e per l’altrove, non necessariamente metafisico. C’è una tendenza al frammento, ma anche all’unità, alla ricomposizione, ad una ricerca di ‘congiunzioni’ che coordino lo scritto e il vissuto. E il numero delle metafore si arricchisce: ora è la ‘nave’ in una struttura allegorica continuata, che permea tutto il testo. E poi l’azzeramento, ma anche tutte le sintesi in negativo («Il bianco della neve») o, come si diceva, in sottotraccia. - La poesia di Rodolfo Vettorello (Come quando ne è conferma) procede per nitore descrittivo ed è priva di impervie analogie in uno stile mai banale, scontato. Tutto è realismo pacato, aperto a interpretare immagini e segni dal piano denotativo a quello connotativo per trapassi semantici. Il testo-titolo funge da figura ritmica iterativa ed assume anche il compito di chiave interpretativa. Non mancano richiami sabani e leopardiani ma, così, di sfuggita, assaggi appena, tracce, tanto per confermare la provenienza e dunque l’appartenenza. - Stesso espediente figurale in Un giorno forse dove il titolo fa da ritorno epiforico a tutto il testo, atto a preparare riflessioni sul senso dell’esistere dopo una nutrita epifania di immagini nell’evocazione di un sempre ritornante desiderio di immortalità, o meglio, sopravvivenza spirituale, affidata ancora alla «magia delle parole», alla capacità illusiva della poesia. - I testi si succedono come tanti quadretti che ripercorrono sul filo memoriale l’età dell’infanzia e della giovinezza. Un recupero in toni leggeri e vagamente crepuscolari. Pagine di diario scorse alla rovescia per ritornare agli eventi, ai personaggi, al clima di un’età di innocenza, rivisitata con elegiaco (non lacrimoso) distacco. E poi il rimbalzo all’«oggi», alla coscienza di un lento sfiorire, appassire. Non si tratta di compiaciuto indugio ma di una pacata presa d’atto, di un sentimento del tempo avvertito in senso ciclico con delicati soprassalti di eterno. - L’uso del tempo logora l’esistenza e denuncia una stanchezza del vivere, espressa nella ripetitività gestuale, fatta di esercizi a vuoto, come giri vani del volano. Sono presenti gli atteggiamenti esistenziali del Novecento sintetizzati nel male di vivere, lavorare stanca o il verso di chiara ascendenza ungarettiana: «Si spende la vita vivendo.» - In questi trasparenti versi di descrizione, che quasi mai si negano all’interpretazione, non vi sono tuttavia certezze facili né tesi consolatorie, semmai ipotesi, secondo la stessa ammissione del poeta. - Il versificare si fa, pagina scorrendo, ‘narratio vitae’, con scene dell’odiernità, quasi a inventariare il vissuto quotidiano. Si dà luogo a una registrazione, a volte quasi in dettaglio, degli eventi minimi. - Il verso, quasi sempre endecasillabo, o anche novenario, assicura in ritmi monodici la lettura della storia personale, evidenziando quella stanchezza ripetitiva del nostro esistere, blandito appunto da un respiro calmo e regolare. Così come lieve è il suono delle parole. Mancano le aspre sonorità e la pronuncia forzata. - Il poeta concede sempre più spazio al campionario di ricordi, nomi, immagini del passato, recuperando l’incanto dell’età innocente e gli stupori della gioventù. Così, pur in un contesto narrativo musicalissimo, le rime sono rare e prevalgono invece i giochi di assonanze e consonanze. Dal patrimonio memoriale della prima età, il poeta estrae materiale di repertorio, gli oggetti di un mondo mitico, sereno, dominato dalla magia dei sogni e delle aspirazioni positive. - Sempre più ricorrente è la parola chiave ‘attesa’: di un evento, di ogni evento, dell’evento estremo. Quest’attesa è accompagnata da un atteggiamento di osservazione di tutto ciò che si svolge nel tempo e nello spazio. Lo scopo, a me sembra, è l’acquisizione di coscienza del vivere, dove stupore e nostalgia sono sempre trattenuti e dominati. Vettorello vigila sui propri stati d’animo, sulle emozioni. Dirà in un verso de La felicità non muore «Il tempo lentamente mi ha insegnato /…/ ad ascoltare il canto degli uccelli», in un’attesa priva di tinte fosche e toni drammatici, semmai mossa dall’«aria quieta». La quiete dunque in un volare quasi planato tanto per evidenziare un tema (il volo) così insistito. - Anche quel pungolo di sotterranea ‘angoscia’ (ne Il mio doppio) che spingerebbe alla interna divisione dell’io («schizofrenico timore») viene lenito dalla possibilità d’amore nella riproduzione del meccanismo che scatta sistematicamente nella personalità del poeta: elevare il dramma a superiori quote di pacificazione. Anche qui si tratta di volo. Lo dirà ne Il pensiero debole: «Sarà che sto perdendomi pian piano / ma senza patimenti.» Appunto nel clima di una ‘dolce memoria’. Lo ribadirà anche ne Il ragno: «Non mi dispero più, sono acquietato.» - Non dirà da solo il cruccio di vivere, ma come voce che nasce dal coro ampio. Vi sono elementi sabani in, per fare un esempio, Avevo un cuore dove si dice di «un cuore che mi batte per me solo.» Ma il poeta nasce ereditando un codice genetico letterario già ben ricco, costituito da cromosomi leopardiani, pascoliani, ungarettiani, montaliani, luziani ecc. È il caso di Vettorello, erede del cosiddetto neodecadentismo (escluse le accezioni negative) e dei classici della poesia novecentesca. Altri sono figli e nipoti di sperimentalismi moderati o avanguardisti più spericolati. Chi può sottrarsi all’appartenenza a parentele culturali? La genialità consiste nell’aggiungere quel verso in più, quello personale che sposta in avanti (magari solo di poco) il tracciato poetico giunto fino a noi. - Per la tenuità di scrittura Vettorello ricorda anche il Camillo Sbarbaro di Pianissimo e il suo fiato agile e lieve nella scelta lemmatica. Conclusioni? Come al solito siamo divisi dall’esigenza di sintesi e dalla consapevolezza che l’opera sia aperta (come suggerisce U. Eco) e che le parole vergate sulla pagina escano dal margine per farsi storia e realizzare ciò che significano perché le immagini perdurino nella nostra memoria come i fosfeni che ci dànno visioni in coloratissimi coriandoli quando, a chiusi occhi, ci stropicciamo le palpebre. Fabio Maria Serpilli |