ROMANZO dal titolo AL DI LA’ DEL MURO - Storia di Gildo
Edizioni Golden Press di Genova dicembre 2007
L’opera è stata pubblicata come Premio Editoriale al Primo Classificato del Concorso L’INCONTRO XII Edizione 2007
dal Romanzo AL DI LA’ DEL MURO uno stralcio:
“La chiamavamo Mabile, senza tenere conto del senso del suo nome; se avessimo capito ci avrebbe fatto sorridere questa nota frivola così poco adatta alla sua persona.
Una donna come un animale da soma.
L'assoluta, impensabile miseria, non intaccava la sua felicità di vivere. Non possedeva nulla di suo, nulla della casa, nulla per confortare la vita, nulla di nulla.
Non poteva dare ai suoi figli neanche il tanto che potesse stare dentro a un occhio. La terra le dava quattro cose per vivere, nessuna da vendere per disporre di qualche soldo per un capriccio.
La sola risorsa il baratto di qualche uovo al solito negozio delle Lise, solo per comprare i quaderni di scuola e un poco di zucchero, nel cartoccio di carta blu. Niente per un po’ di caffè, un dentifricio, una saponetta, una medicina.
Gli abiti, per lei e i suoi figli, erano quelli dismessi di tutti. Il cachet per il mal di denti era sempre elemosinato a qualcuno, in attesa che il dente cadesse. Il dentista era sconosciuto, solo il veterinario veniva chiamato quando la mucca , la Maura, doveva partorire e come quando quelle pecore erano scoppiate. Letteralmente scoppiate dopo essere uscite dal recinto ed essere entrate in un prato di erba medica. Avevano mangiato fino all'impossibile e poi bevuto allo stagno. La fermentazione aveva gonfiato spaventosamente il loro ventre . Piero aveva tentato di sollecitare il vomito con qualche cosa nella gola. Aveva poi tenuta aperta la loro bocca con una specie di morso fatto con una verga di legno verde ma a nulla era servito il suo lavoro né l'arrivo del veterinario.
Gildo e Neno non avevano biancheria, solo una maglia di lana cruda per l'inverno ma niente mutande. Scarpe solo per andare a scuola.
Mabile cucinava ogni giorno patate e zucche, per lei, per i suoi, per gli altri bambini e quel che restava per la scrofa e i suoi piccoli. Arrostiva pannocchie sul fuoco e in autunno castagne. Nel fumo del grande camino maturava ogni giorno la poina, la ricotta salata.
Ripensando con gli occhi di oggi, so di aver visto il nulla più nulla che si possa immaginare. Ma non una privazione infelice e disperata ma nemmeno la miseria felice di certe retoriche.
Una cosa struggente come l'accettazione della propria condizione in letizia, pensando a chi ha ancora meno per non avere salute o casa o lavoro.
La mia piccola coscienza di bambino mi faceva pensare dolorosamente che Amabile accettasse tutto con la consapevolezza assurda di non meritare niente altro di più. E questo per una vita intera.
I suoi figli non meritavano scarpe, per essere nati contadini, non meritavano giochi perchè il loro destino era parallelo a quello del bue e del somaro.
La sua accettazione del destino e della vita, non per fede religiosa o per elaborazione cosciente, la rendeva luminosa e ridente.
Accettava con lo stesso animo anche il povero Piero, accettava la sua sbornia furiosa di ogni sabato sera, quando doveva caricarselo sulle spalle lungo due rampe di scala. Accettava la manata sul culo dello zio Carlo, il fratello di Piero, quando anche lui con la sbronza del sabato si ricordava per un attimo di essere un maschio e di aver voglia di femmina.
Mabile sapeva tante cose delle erbe dei prati, di quelle che si raccolgono per mangiare in insalata, delle altre da bollire per conservarle, di quelle per curare le scottature e le ferite.
Per far uscire una spina troppo profonda, fasciava la mano con una pezza e sotto, sulla pelle, una foglia di "piantal", la piantaggine. Un' umile erba degli sterrati che aveva la facoltà di far maturare la pelle intorno alle spine per poi consentirne l'espulsione.
Proprio accanto alla casa di Amabile era la sorgente dove era scoppiata la bomba che aveva dilaniato Candido, Rita ed Assunta. Lei la prima ad accorrere per trascinare i corpi dentro la sua cucina, perché potessero morire dentro una casa. Lei ad asciugare per giorni il sangue che aveva impregnato il pavimento in terra battuta della sua stanza. Lei a rastrellare nel prato, per giorni, brandelli e capelli.
La dolce Amabile pianse forse per la prima volta nella sua vita, sulle mani del conte Miari il giorno del furto del grano. Lei a umiliarsi, a maledire e perdonare e poi ancora maledire il suo uomo.
Era piccola, grassoccia, un viso tondo con occhi scuri e vivaci, cappelli a treccia fermati a ruota intorno alla testa. Nonostante la giovane età portava solo un abito scuro, sempre lo stesso. Non si sarebbe mai sognata di portare gli abiti chiari a fiori che la mamma le avrebbe passato, le contadine non potevano vestire a colori.
La mamma chiedeva: Mabile come eravate vestiti, tu e Piero, quando vi siete sposati? Allora Mabile impazziva di riso raccontando del suo abito da sposa, quello della cugina Rita e di Piero imbalsamato in un doppio petto di quattro taglie più grande del dovuto. E il viaggio di nozze con il carro, dalla chiesa di Meano alla casa di sasso, un chilometro.
Una volta alla settimana, d'inverno, bolliva l'acqua della fontana e in un mastello in mezzo alla cucina, lavava Neno il più piccolo, poi Gildo, poi si lavava Piero, poi Carlo. Nell'acqua ormai nera, lei. Bisognava restare puliti, i bambini perché a scuola la maestra controllava tutti i giorni le orecchie, i grandi perché non si sa mai Si poteva aver bisogno di chiamare il dottore. E il dottor Morsolin che veniva in bicicletta da Santa Giustina non voleva saperne. I contadini dovevano essere lindi, altrimenti non li avrebbe visitati ma mandati direttamente all'ospedale.
Mabile veniva da un paese infinitamente lontano, forse da un'altra valle, dove si parlava un dialetto un poco diverso, forse ancora più duro di quello gutturale di Meano. Un paese lontano lontano, forse cinquanta chilometri. L'unico viaggio della sua vita sul treno a scartamento ridotto che dalla stazione di Sedico si inoltra tra le gole di Gron e poi dentro la valle agordina.
Raccontava di una mitica città travolta da una frana in epoche remote, non si sa se nella storia o prima della storia. Luoghi che si immaginavano avvolti nel mistero di accadimenti che solo lei sembrava conoscere. Dentro le masiere di Gron, dietro la Certosa di Vedana, la città si chiamava California.
Non ho mai voluto indagare di più su questo luogo mitico perché è sicuramente più magico nella mia immaginazione piuttosto che in qualunque realtà verificabile.
E' bello lasciarsi dei siti speciali in cui rifugiare la fantasia quando l'assillo del reale è troppo pressante.
Una delle mie differenti anime vorrebbe davvero somigliare ad Amabile. Già l'essere Amabile sarebbe un dono raro, essere condannato ad esserlo e accettarlo sarebbe un'ipocrisia, ma esserlo per libera scelta sarebbe un privilegio e una liberazione.
Anche Mabile mi ha sorriso da una lapide del cimitero di Meano. Lei non vede il monte Pizzocco ma il suo sguardo non ha mai girato l'intero orizzonte. Le è sempre bastato il cerchio esiguo del suo cortile, dei suoi campi, fino alla fontana, non di più.
La sua è una foto recente ma riconosco nel viso di una vecchia donna la luce di ciò che è stato.
Vorrei appropriarmi di qualcosa di lei. La sua serenità nella privazione potrebbe diventare in me, se mi venisse concessa, quell'eleganza e leggerezza del vivere che non so raggiungere.”
Edizioni Golden Press di Genova dicembre 2007
L’opera è stata pubblicata come Premio Editoriale al Primo Classificato del Concorso L’INCONTRO XII Edizione 2007
dal Romanzo AL DI LA’ DEL MURO uno stralcio:
“La chiamavamo Mabile, senza tenere conto del senso del suo nome; se avessimo capito ci avrebbe fatto sorridere questa nota frivola così poco adatta alla sua persona.
Una donna come un animale da soma.
L'assoluta, impensabile miseria, non intaccava la sua felicità di vivere. Non possedeva nulla di suo, nulla della casa, nulla per confortare la vita, nulla di nulla.
Non poteva dare ai suoi figli neanche il tanto che potesse stare dentro a un occhio. La terra le dava quattro cose per vivere, nessuna da vendere per disporre di qualche soldo per un capriccio.
La sola risorsa il baratto di qualche uovo al solito negozio delle Lise, solo per comprare i quaderni di scuola e un poco di zucchero, nel cartoccio di carta blu. Niente per un po’ di caffè, un dentifricio, una saponetta, una medicina.
Gli abiti, per lei e i suoi figli, erano quelli dismessi di tutti. Il cachet per il mal di denti era sempre elemosinato a qualcuno, in attesa che il dente cadesse. Il dentista era sconosciuto, solo il veterinario veniva chiamato quando la mucca , la Maura, doveva partorire e come quando quelle pecore erano scoppiate. Letteralmente scoppiate dopo essere uscite dal recinto ed essere entrate in un prato di erba medica. Avevano mangiato fino all'impossibile e poi bevuto allo stagno. La fermentazione aveva gonfiato spaventosamente il loro ventre . Piero aveva tentato di sollecitare il vomito con qualche cosa nella gola. Aveva poi tenuta aperta la loro bocca con una specie di morso fatto con una verga di legno verde ma a nulla era servito il suo lavoro né l'arrivo del veterinario.
Gildo e Neno non avevano biancheria, solo una maglia di lana cruda per l'inverno ma niente mutande. Scarpe solo per andare a scuola.
Mabile cucinava ogni giorno patate e zucche, per lei, per i suoi, per gli altri bambini e quel che restava per la scrofa e i suoi piccoli. Arrostiva pannocchie sul fuoco e in autunno castagne. Nel fumo del grande camino maturava ogni giorno la poina, la ricotta salata.
Ripensando con gli occhi di oggi, so di aver visto il nulla più nulla che si possa immaginare. Ma non una privazione infelice e disperata ma nemmeno la miseria felice di certe retoriche.
Una cosa struggente come l'accettazione della propria condizione in letizia, pensando a chi ha ancora meno per non avere salute o casa o lavoro.
La mia piccola coscienza di bambino mi faceva pensare dolorosamente che Amabile accettasse tutto con la consapevolezza assurda di non meritare niente altro di più. E questo per una vita intera.
I suoi figli non meritavano scarpe, per essere nati contadini, non meritavano giochi perchè il loro destino era parallelo a quello del bue e del somaro.
La sua accettazione del destino e della vita, non per fede religiosa o per elaborazione cosciente, la rendeva luminosa e ridente.
Accettava con lo stesso animo anche il povero Piero, accettava la sua sbornia furiosa di ogni sabato sera, quando doveva caricarselo sulle spalle lungo due rampe di scala. Accettava la manata sul culo dello zio Carlo, il fratello di Piero, quando anche lui con la sbronza del sabato si ricordava per un attimo di essere un maschio e di aver voglia di femmina.
Mabile sapeva tante cose delle erbe dei prati, di quelle che si raccolgono per mangiare in insalata, delle altre da bollire per conservarle, di quelle per curare le scottature e le ferite.
Per far uscire una spina troppo profonda, fasciava la mano con una pezza e sotto, sulla pelle, una foglia di "piantal", la piantaggine. Un' umile erba degli sterrati che aveva la facoltà di far maturare la pelle intorno alle spine per poi consentirne l'espulsione.
Proprio accanto alla casa di Amabile era la sorgente dove era scoppiata la bomba che aveva dilaniato Candido, Rita ed Assunta. Lei la prima ad accorrere per trascinare i corpi dentro la sua cucina, perché potessero morire dentro una casa. Lei ad asciugare per giorni il sangue che aveva impregnato il pavimento in terra battuta della sua stanza. Lei a rastrellare nel prato, per giorni, brandelli e capelli.
La dolce Amabile pianse forse per la prima volta nella sua vita, sulle mani del conte Miari il giorno del furto del grano. Lei a umiliarsi, a maledire e perdonare e poi ancora maledire il suo uomo.
Era piccola, grassoccia, un viso tondo con occhi scuri e vivaci, cappelli a treccia fermati a ruota intorno alla testa. Nonostante la giovane età portava solo un abito scuro, sempre lo stesso. Non si sarebbe mai sognata di portare gli abiti chiari a fiori che la mamma le avrebbe passato, le contadine non potevano vestire a colori.
La mamma chiedeva: Mabile come eravate vestiti, tu e Piero, quando vi siete sposati? Allora Mabile impazziva di riso raccontando del suo abito da sposa, quello della cugina Rita e di Piero imbalsamato in un doppio petto di quattro taglie più grande del dovuto. E il viaggio di nozze con il carro, dalla chiesa di Meano alla casa di sasso, un chilometro.
Una volta alla settimana, d'inverno, bolliva l'acqua della fontana e in un mastello in mezzo alla cucina, lavava Neno il più piccolo, poi Gildo, poi si lavava Piero, poi Carlo. Nell'acqua ormai nera, lei. Bisognava restare puliti, i bambini perché a scuola la maestra controllava tutti i giorni le orecchie, i grandi perché non si sa mai Si poteva aver bisogno di chiamare il dottore. E il dottor Morsolin che veniva in bicicletta da Santa Giustina non voleva saperne. I contadini dovevano essere lindi, altrimenti non li avrebbe visitati ma mandati direttamente all'ospedale.
Mabile veniva da un paese infinitamente lontano, forse da un'altra valle, dove si parlava un dialetto un poco diverso, forse ancora più duro di quello gutturale di Meano. Un paese lontano lontano, forse cinquanta chilometri. L'unico viaggio della sua vita sul treno a scartamento ridotto che dalla stazione di Sedico si inoltra tra le gole di Gron e poi dentro la valle agordina.
Raccontava di una mitica città travolta da una frana in epoche remote, non si sa se nella storia o prima della storia. Luoghi che si immaginavano avvolti nel mistero di accadimenti che solo lei sembrava conoscere. Dentro le masiere di Gron, dietro la Certosa di Vedana, la città si chiamava California.
Non ho mai voluto indagare di più su questo luogo mitico perché è sicuramente più magico nella mia immaginazione piuttosto che in qualunque realtà verificabile.
E' bello lasciarsi dei siti speciali in cui rifugiare la fantasia quando l'assillo del reale è troppo pressante.
Una delle mie differenti anime vorrebbe davvero somigliare ad Amabile. Già l'essere Amabile sarebbe un dono raro, essere condannato ad esserlo e accettarlo sarebbe un'ipocrisia, ma esserlo per libera scelta sarebbe un privilegio e una liberazione.
Anche Mabile mi ha sorriso da una lapide del cimitero di Meano. Lei non vede il monte Pizzocco ma il suo sguardo non ha mai girato l'intero orizzonte. Le è sempre bastato il cerchio esiguo del suo cortile, dei suoi campi, fino alla fontana, non di più.
La sua è una foto recente ma riconosco nel viso di una vecchia donna la luce di ciò che è stato.
Vorrei appropriarmi di qualcosa di lei. La sua serenità nella privazione potrebbe diventare in me, se mi venisse concessa, quell'eleganza e leggerezza del vivere che non so raggiungere.”